Francesca e l’esperienza di volontariato in Malawi. Una storia da raccontare
Pubblichiamo l’intervista di Francesca Catalucci, rilasciata al mensile parrocchiale ‘La Vela’ di Avigliano Umbro, ringraziando il parroco Don Piero Grassi
AVIGLIANO UMBRO – Un sorriso, un abbraccio e un bacio può rendere una persona felice. Bastano dei piccoli gesti per diventare grandi, e per capire che ci vuole davvero poco per aiutare chi ha bisogno.
Il volontariato risponde a quanto detto in precedenza, e l’esperienza di cui stiamo per parlare va sicuramente raccontata.
Francesca è partita per il Malawi con gli “Amici del Malawi Onlus”, associazione senza scopo di lucro di Perugia, che da oltre 30 anni opera lì, contribuendo al “gemellaggio” tra l’Archidiocesi perugino-pievese e la diocesi di Zomba, l’antica capitale del Malawi.
Don Marco Briziarelli, attuale presidente dell’associazione, con l’aiuto di tanti volontari, tra questi la dott.ssa Vittoria Tomassoni, che ha seguito i ragazzi in questa esperienza, coordina con vera passione i progetti di cooperazione e sviluppo, coinvolgendo anche istituzioni civili e realtà imprenditoriali umbre in ambito socio-sanitario, scolastico e formativo-professionale. Fiori all’occhiello di questa cooperazione sono un ospedale, un politecnico e cinque asili per orfani.
Francesca ed il suo gruppo hanno vissuto nel Paese africano la loro esperienza di “carità-missione”. Il gruppo era composto da ragazzi e ragazze, anche giovanissimi, alle prime esperienze di volontariato missionario.
Durante le tre settimane i ragazzi hanno avuto l’opportunità di lavorare presso il reparto pediatrico dell’Ospedale Centrale di Zomba, soprattutto per svolgere lavori manutentivi di varia natura, visto le condizioni precarie e disumane in cui versa la struttura, ma anche per essere di compagnia ai bambini ricoverati, bisognosi di tante attenzioni, calore ed affetto.
Immancabile, come ogni anno, è stata poi la visita con consegna degli aiuti portati dall’Italia ai cinque Asili e al Politecnico di Thondwe.
Ecco il racconto completo di Francesca che definisce la sua ‘un esperienza che cambia la vita ed il modo di guardarla’
“Fin da piccola ho sempre avuto il desiderio di stare tra i bambini e di aiutarli, magari diventando pediatra, poi invece ho studiato per fare altre cose. Tuttavia ho sempre “covato” nel cuore il sogno di mettermi alla prova e tentare veramente di fare qualcosa per i più piccoli ed indifesi. Diventata indipendente ho capito che era giunto il momento di realizzare il sogno e, insieme alla mia amica Lena, sono entrata in contatto con l’associazione Amici del Malawi. Già dai primi incontri abbiamo capito la serietà dell’organizzazione e la loro capacità di donarsi interamente al prossimo con profondo spirito fraterno. La decisione di partire è nata perciò subito, nel momento in cui mi rendevo conto che alcuni dei progetti portati avanti dall’Associazione rappresentavano proprio il concretizzarsi del mio desiderio giovanile di stare e fare qualcosa per i bambini.
Ogni mia aspettativa prima della partenza è stata completamente superata da quello che questo periodo di volontariato missionario mi ha dato. Intanto non sono partita pensando ad andare in Malawi come se fosse uno dei tanti viaggi di turismo che ho fatto. Per il Malawi sono partita per capire e seguire un riflesso del cuore, il desiderio di essere fraternamente presente nelle vite degli altri.”
“Appena arrivati in aeroporto ci sono venuti a prendere in macchina per portarci nella casa che avremmo condiviso nel nostro soggiorno. Da quel momento in poi, soprattutto durante tutti gli spostamenti sulle lunghissime strade, spesso sterrate, che abbiamo percorso – sul cassone del nostro pick up – per arrivare nei vari luoghi della missione, siamo stati accompagnati da quello che io chiamo “un popolo in cammino”. File quasi ininterrotte di persone: adulti, ma anche piccoli e piccolissimi che camminano, spesso a piedi nudi, per chilometri, dandosi la mano e soprattutto sorridendo a noi e a tutti gli altri. Il sorriso di queste persone e le loro interminabili file lungo le strade di terra rossa sono state le immagini che hanno da subito fatto breccia nel mio cuore. Poi i colori sgargianti dei vestiti, delle stoffe e quelli della natura. I colori, gli odori ed i profumi dei mercati e mercatini locali, in cui la verdura prodotta localmente viene quotidianamente venduta.
Un grido gioioso mi ha accompagnata per tutto il soggiorno. Tutti infatti, ma soprattutto i bambini, quando ci vedevano gridavano felici e sorridenti “Azungu, Azungu” cioè “Bianco, Bianco” per richiamare la nostra attenzione. Il suono di quelle vocine difficilmente si dimentica.
Ma i sorrisi, soprattutto, quegli occhi così grandi e luminosi, il loro leggero e costante innalzare le sopracciglia per salutare il prossimo mentre la bocca si spalanca in un grande sorriso è l’immagine che sicuramente porterò sempre con me.
Razionalmente mi sono chiesta a lungo: ’Ma chi siamo noi per loro? Sfruttatori? Fratelli che aiutano chi ha bisogno? Persone che aiutando però deresponsabilizzano i locali? Gente che arriva lì pensando di donare e invece riceve più di quanto riesca a dare? Sono domande difficili e ho ancora bisogno di riflettere su di esse”.
“Si viveva nella casa comune, chiamata proprio Casa Perugia, che rispetto alle casupole del villaggio era sicuramente una sistemazione eccellente. La sveglia era all’alba, tra le 5 e le 6 del mattino, per sfruttare al meglio la luce del sole che lì cala intorno alle 5 del pomeriggio, con il rischio concreto di rimanere al buio, data la scarsa fornitura di elettricità. I pasti, soprattutto la colazione e la cena, erano momenti di grande fratellanza sia tra di noi che con gli ospiti che spesso venivano a farci visita: volontari di altre associazioni oppure locali che avevano bussato alla nostra porta. Stipati in 8 o 9 sul cassone del pick-up, partivamo poi per raggiungere i posti di lavoro. Oltre alle attività svolte all’ospedale e negli asili non sono comunque mancati momenti di svago, duranti i quali, grazie a Don Bruno, abbiamo scoperto tanti meravigliosi scenari malawiani: mi vengono in mente le piantagioni di thè e di caffè, i parchi con i suoi grandi animali, i tramonti mozzafiato, i mercati all’aperto dai mille colori ed odori.
Il rientro a Casa Perugia, solitamente prima del tramonto, era forse uno dei momenti più emozionante della giornata. Imboccata la strada sterrata che ci conduceva a casa, il clacson del pick-up diventava il richiamo per tutti i bambini che vivevano nelle vicinanze della nostra abitazione, che puntualmente erano tutti nel cortile ad attenderci gioiosi e trepidanti, e ai quali potevamo dedicare quell’ora di tempo prima del calare del sole che ci costringeva a rientrare in casa. Loro ci prendevano per mano e noi ci facevamo guidare ed insieme si percorrevano quelle lunghe strade di terra rossa per arrivare ad ammirare i fascinosi ed infuocati tramonti africani. Quelle passeggiate avrei desiderato non finissero mai. Così cariche di “vita”, si rideva, si scherzava, si giocava, si facevano tante fotografie. Quanto amano quei bimbi le fotografie.
Non posso dimenticare lo stupore dei più piccoli nel vedere per la prima volta il loro volto immortalato nei nostri smartphone. Cosi come non posso dimenticare la sorpresa nel capire che, guardando quello schermo, la prima immagine che ogni bambino riconosceva non era la propria ma quella del proprio amichetto. Se non ci sono specchi in casa, non puoi sapere com’è fatta la tua bocca, il tuo nasino e i tuoi occhietti”.
Sembra quasi assurdo per noi, ma è davvero così.
“Una delle ultime sere, i nostri nuovi piccoli amici ci hanno anche aiutato ad accendere un falò. Per loro cercare la legna nel bosco è uno dei lavori quotidiani essenziali. Un lavoro quasi esclusivamente femminile, insieme a quello di trasportare acqua in grandi brocche sopra la testa. E sulla testa trasportano anche i lunghi legni raccolti nella foresta e legati in fascine che assicureranno così la cottura del cibo della giornata. Sono questi i lavori che spesso tengono le ragazze lontane dalle scuole, così almeno ci hanno raccontato le suore che le gestiscono e che cercano in qualsiasi modo di assicurare a queste ragazze un minimo di istruzione per poter loro garantire un futuro magari migliore.
Il nostro ultimo giorno è stato preceduto da una lunga passeggiata nei villaggi situati intorno Casa Perugia per consegnare alle famiglie tutto ciò che potevamo lasciar loro, abiti, scarpe, coperte, asciugamani, oggetti vari…
I bambini avevano intuito che quei preparativi annunciavano la nostra partenza e la mattina successiva si sono fatti trovare tutti in fila per un ultimo, lungo, straziante saluto, un’ultima caramella ed una lunga corsa dietro le nostre macchine gridando e sorridendo mentre noi piangevamo silenziosi.
Tuttavia l’esperienza più forte e che più mi ha messo in crisi è stato l’arrivo al crepuscolo all’Ospedale Centrale di Zomba per visionare il posto in cui il giorno seguente avremmo cominciato i lavori.
La costruzione di per sé non era particolare, un semplice edificio in mattoni ad un piano con tante finestre, semplice ed essenziale. Dall’entrata principale si accedeva ad una sala d’attesa e, poi, ai due padiglioni, dove erano ammucchiati decine e decine di piccoli letti in vecchia pelle marrone, in cui i bambini piangevano e soffrivano più o meno in silenzio.
Ma non è stato tanto l’impatto visivo, anche se non nascondo che vedere tanti piccoli corpi ammucchiati su materassini bucati, accanto a finestre con i vetri rotti e sotto luci al neon che penzolavano malamente dal soffitto, non è stata certo un’immagine semplice da metabolizzare per noi “occidentali”, abituati a condizioni igieniche ben diverse.
Piuttosto è stato quell’odore forte e acre della malattia, delle medicine, dell’urina e di non so cos’altro, che mi ha quasi stordito e che ancora mi sembra di avere nel naso. Un odore che solo il mattino seguente abbiamo capito da dove venisse. Per tutto il perimetro dell’edificio correva una grande fogna a cielo aperto in cui si riversavano gli scarichi dell’ospedale. Ed in cui anche i pazienti gettavano i loro escrementi, direttamente dalle finestre rotte dei padiglioni, semplicemente avvolgendoli nelle bustine di plastica dove noi ricchi occidentali di solito chiudiamo gli escrementi dei nostri cani portati a guinzaglio nelle vie cittadine.
Ho intuito forse in quel momento che il lavoro da fare è veramente tantissimo, ma che, soprattutto, deve coinvolgere un cambiamento radicale anche nelle abitudini degli abitanti del Malawi, cosa che però rischia anche di stravolgere il loro modo di vivere. Insomma ho iniziato a riflettere sul nostro ruolo lì, su quello che possiamo fare e su quello che anche loro possono e devono fare per loro stessi.”
“Prima di partire pensavo a noi come coloro che avrebbero portato in Malawi qualcosa (lavoro? educazione? il miraggio del nostro “progresso”, così che anche loro possano ambire ad esso?). Una volta tornata ho capito che il Malawi e la sua gente mi hanno dato molto più di quanto io abbia potuto dare a loro. Torni e vedi la realtà con un altro filtro e riesci a dare un valore diverso alle cose. Parti con la presunzione di dare e torni, invece, con la consapevolezza che sono loro ad averti regalato, senza saperlo, un sorriso, ma in quel sorriso c’è un mondo intero. Il mondo di chi aspetta il momento in cui tu butti la spazzatura per cercare e trovare un prezioso tesoro: il barattolo di vetro che conteneva la tua marmellata. Sarà quello il contenitore dei sogni di quel bambino? Sarà lì che la sua mamma metterà qualche cosa di prezioso per la propria famiglia? Sarà quello la loro cassaforte?
Ho di sicuro imparato a donare. Perché negli occhi porterò sempre lo sguardo di quei bimbi che si apriva in un grande sorriso, quando chiunque, soprattutto noi “Azungu”, metteva le mani in tasca per prendere un piccolo dono. E non importava ciò che regalavi loro, se un contenitore vuoto delle gomme americane o le così desiderate “sweeties”; loro lo avrebbero sicuramente considerato come qualcosa di infinitamente prezioso.”
Le riflessioni di Francesca dopo questa esperienza
“Al mio ritorno mi sono chiesta perché non avessi fatto prima questo tipo di viaggio e mi ha poi particolarmente colpito l’interesse che stava suscitando tra tante persone.
Forse la nuova missione è iniziata il giorno che abbiamo fatto rientro in Italia? Forse la nuova missione inizia con la testimonianza? Mi piace pensare che questo racconto riesca in qualche modo a scuotere chi lo sta leggendo, soprattutto i giovani, che avendo più tempo libero e salute, potrebbero di certo avvicinarsi al mondo del volontariato perché, se anche si parte per sola curiosità, poi di sicuro il contatto con realtà così lontane e spesso dure ci può risvegliare dall’indifferenza in cui la nostra ’grassa e molle’ società ci abitua. Quella è davvero la realtà dura e lontana che si vede in tv, mentre pigramente, storditi da tanti confusi messaggi commerciali, stiamo sdraiati sui nostri comodi divani ad aspettare un altro monotono, grigio e triste giorno di lavoro. Ci sono davvero i bimbi con i pancioni gonfi di fame o quelli che mangiano corteccia degli alberi, quelli sempre sporchi, invasi da mosche, con vestiti laceri che non cambiano per settimane e che camminano per chilometri a piedi nudi senza piangere mai, sorridenti e fiduciosi, aperti agli altri e pronti a donare. Magari solo un sorriso.
Ad oggi la grande scommessa per il Malawi continua ad essere l’istruzione, la possibilità di cura ed il lavoro. Per questo, rubando le parole di Don Marco, mi sento di ripetere “Non lasciamo da soli questi nostri fratelli”.
Concludo infine ringraziando Don Marco, Don Bruno, Vittoria, tutti i ragazzi compagni di viaggio e l’associazione tutta, che ci ha dato questa impagabile opportunità di arricchimento, e invito tutti voi a visitare il loro sito per scoprire come si possa fraternamente costruire insieme un mondo migliore per tutti: www.amicidelmalawi.com. ZIKOMO.”